Di tanti palpiti…

È un divertissement tra il letterario e il musicale questo Di tanti palpiti… tratto dal celebre romanzo Il bacio di una morta di Carolina Invernizio. È un fitto, scanzonato gioco di rimandi, di allusioni, di echi, dove il feuilleton si rispecchia nel melodramma per ritrovare intrecci, passioni, personaggi, con i loro caratteri portati a quell’eccesso al limite dell’inverosimile che un tempo era scandalo e che oggi forse è solo sorriso. Amori travolgenti, gelosie, tormenti, asti, rovelli, delitti, efferatezze, ma anche vendetta, perdono, provvidenza, giustizia e riconciliazione: ecco gli ingredienti dell’infausta, ma infine felicissima storia della contessa Clara Rambaldi (angelico custode dell’amore coniugale) del conte Guido suo marito (il fedifrago), di Alfonso il di lei fratello (il figlio della colpa); e di Nara, misteriosa ammaliatrice, nefanda ballerina giavanese, incarnazione del disordine e del male.
L’improbabile, nonostante i colpi di scena, correre verso lo scontato, ma il feuilleton, così come l’opera lirica, nella sua dichiarata esasperazione sa essere metafora, lente d’ingrandimento per mettere a nudo impietosamente i nervi sensibili di quella tutt’altro che lontana società, con le sue contraddizioni, ambiguità e soprattutto apparenze. È davvero ingenuamente angelica la contessa Clara Rambaldi, specchio d’ogni virtù muliebre oppure sa trasformarsi in una soggiogatrice dominante pur di difendere il decoro della propria famiglia? Chi è più tigre? Clara o Nara? Alla fin fine sono solo poche lettere dell’alfabeto a distinguerle…
L’umorismo del tratto inconfondibile di Altan prende per mano e conduce in quel mondo da letture proibite ancillari, ne dischiude le porte e l’anima.
È attraverso quel varco che Paola Roman si insinua, con pudore divertito, per alludere agli aneliti di quei vacui personaggi, ma sempre in dialogo con Oliviero Pari, che al pianoforte dà voce ad arie d’opera, mai di commento, ma di supporto al dipanare del racconto.

Un gioco, un divertimento, ma forse neanche poi tanto…

CAROLINA INVERNIZIO
“Un’onesta gallina della letteratura popolare”.
Questa è la celebre definizione data da Antonio Gramsci a Carolina Maria Margarita Invernizio, nata a Voghera nel 1851 (e non nel 1858 come sosteneva lei con un pizzico di civetteria e come fu a lungo tramandato) e morta a Cuneo nel 1916.
Figlia di un funzionario delle imposte, visse a lungo a Firenze dove studiò da maestra prima di venir espulsa dalla scuola per aver pubblicato sul giornale scolastico un racconto “di perdizione”, e sposò Marcello Quinterno, un ufficiale dei bersaglieri assegnato a dirigere il panificio militare di Torino.
Qui Carolina Invernizio trascorse praticamente tutto il resto della sua vita, tenendo un salotto che riceveva il lunedì.
Ebbe un’unica figlia dal nome un po’ scontato di Marcella. Pur dividendosi equamente tra i doveri familiari e mondani (pare che avesse una gran passione per parrucche, cappelli e piume di struzzo), trovava il tempo per scrivere: racconti e romanzi (non se ne sa il numero esatto, ma pare siano circa 130) intrisi d’amore e di sangue, di delitti e di follia, di passioni travolgenti e di tradimenti, di morti apparenti e di raccapriccianti vendette.
Ne scriveva anche due alla volta, spesso con l’aiuto della sorella Vittorina, che teneva il conto dei personaggi e dei morti perché non ci fossero incongruenze nella trama. Storie raccontate con una tal enfasi e una tal esuberanza narrativa (“Io prendo così viva parte alla vita dei miei personaggi,
che mi commuovo, piango con loro, mi sembra di assistere realmente alle scene che descrivo e sono costretta talvolta a sospendere per un istante il mio lavoro, tanta è la sofferenza che ne provo e che si ripercuote nel mio cervello e nel mio cuore…”) da sfociare spesso, almeno agli occhi di un lettore smaliziato, in un’irresistibile quanto involontaria comicità.
Perfettamente consapevole del suo pubblico (“Tu scrivi per la crème, io per quello che rimane” – disse una volta a Matilde Serao), scrisse per le madri, per le figlie e per le spose, ma fu letta (di nascosto) anche dai mariti. E forse nessuno come lei riuscì a rappresentare (ma sempre con quotidiano e diligente buonsenso) i sogni inespressi, le paure, le ossessioni inconfessate, le esotiche e scontate “pruderie” della piccola borghesia di allora.
Perfettamente aderente ai valori della società del suo tempo di cui le sue eroine si fanno custodi (capaci spesso di ogni sorta di menzogna pur di salvaguardare “il santuario della casa e della famiglia”), il suo successo fu enorme.